Per la maggior parte dei designer, l’AI non sostituisce la creatività. È piuttosto un nuovo partner, a volte brillante, a volte inadeguato, e sempre bisognoso di supervisione.
L’AI come collaboratore creativo
Vicky Bullen, CEO di Coley Porter Bell, descrive l’AI come un collaboratore che può “diventare sempre più un partner nei processi creativi, aiutandoci ad approfondire e amplificare l’ideazione.” Tuttavia, sottolinea che per arrivare a idee davvero straordinarie servono ancora i salti intuitivi dell’essere umano. L’automazione accelera i flussi, ma l’originalità resta legata all’intuizione.
Anche Brendán Murphy, global creative director di Lippincott, evidenzia un equilibrio: l’AI è “un nuovo set di strumenti con cui giocare,” utile per il motion design leggero o la scalabilità dei contenuti di brand. Ma ribadisce che il suo ruolo è rafforzare la connessione umana e l’autenticità, non sostituirle.
La linea del moodboard
Leigh Chandler, founder e executive creative director di Sister Mary, è chiara sui propri limiti: l’AI non entra nella fase iniziale di esplorazione.
“Non userei mai l’AI per costruire un moodboard. Amo perdermi nelle idee, nelle immagini, nelle associazioni: è quasi meditativo. Sono i miei giorni preferiti e spesso portano alle intuizioni strategiche più grandi.”
Una volta gettate le basi, però, è più aperta all’uso: l’AI può intervenire per modifiche mirate, come “rendere la banana blu o aggiungere persone in una scena.” Una divisione dei compiti che riflette il pensiero di molti designer: l’essere umano traccia la rotta, la macchina rifinisce i dettagli.
Coerenza contro agilità
Molti professionisti condividono la stessa preoccupazione: come bilanciare l’identità di lungo periodo con l’agilità richiesta oggi.
Lorenzo Fruzza, chief design officer di Havas London, propone di superare l’ossessione per l’aspetto visivo rigido a favore del “sentire” del brand. L’AI può contribuire a costruire sistemi dinamici, con coerenza negli elementi chiave (logo, ecc.) e flessibilità nelle storie locali. La sfida è progettare sistemi che si adattino senza spezzarsi.
Bullen insiste sull’importanza degli asset distintivi, i “fili rossi che rendono un brand riconoscibile,” mentre Chandler ribadisce il ruolo del purpose come stella polare di ogni adattamento.
Gli errori dei brand
Nonostante l’entusiasmo, i giurati evidenziano anche ciò che spesso viene trascurato. Per Bullen, tipografia e linguaggio sono strumenti ancora sottovalutati; branding sonoro e principi di motion risultano poco sviluppati in molti sistemi identitari. Murphy è netto: “Il brand vive di differenziazione, ma la tendenza a uniformarsi porta a perdere originalità. La scelta più sicura è spesso la più rischiosa.”
Sue Walsh di SYPartners va oltre, legando l’AI all’erosione della convinzione creativa:
“Se GPT ti dà un’idea, come sviluppi la convinzione di crederci davvero? Il rischio non è l’efficienza, ma l’atrofia.”
Esternalizzare troppo il processo di ideazione, sostiene, può far perdere quella disciplina e resilienza che rendono possibili i veri salti creativi.
Il fattore umano
Per quanto l’AI offra possibilità, i giurati sono convinti che i designer di domani saranno definiti non dalla padronanza tecnica, ma dalle capacità umane.
Walsh elenca qualità come “giudizio editoriale, poesia, pensiero originale, innovazione sostenibile.” Chandler parla di un approccio “media agnostic” unito alla padronanza dei fondamentali. Murphy richiama l’attenzione su curiosità, ascolto e artigianalità.
Il filo conduttore è chiaro: l’AI accelera la produzione, ma non può replicare empatia, sensibilità culturale o esperienza vissuta. I designer vedono l’AI come strumento per scalare e stimolare idee, ma anche come fonte di omologazione e scorciatoie pericolose.
Il compito dei designer di domani non sarà padroneggiare i prompt, ma usare l’AI senza perdere ciò che dà senso al design: originalità, narrazione, convinzione e connessione umana. Come sintetizza Walsh:
“Ogni estensione tecnologica è anche un’amputazione. Non dobbiamo permettere che questa amputi la nostra fiducia, il nostro pensiero o il nostro senso di scoperta.”